Come potrò parlare del Tutto che non è duale?
Come potrò parlare del Tutto che ha la natura della dualità?
Come potrò parlare del Tutto che è eterno e non eterno?
Io sono il nettare della conoscenza, esistenza omogenea, come il cielo.
Avadhutagita (III, 5)
Come potrò parlare del Tutto che ha la natura della dualità?
Come potrò parlare del Tutto che è eterno e non eterno?
Io sono il nettare della conoscenza, esistenza omogenea, come il cielo.
Avadhutagita (III, 5)
Nel commento, Bodhananda rileva che la vera difficoltà nell’insegnamento tradizionale (upadeśa) della "visione non duale" è l’impossibilità di trasmetterlo indirettamente.
Ecco che l'’istruzione viene comunque trasmessa per testimoniare la possibilità di una determinata esperienza, ma si afferma che nessuna azione può produrre l’esperienza della realtà assoluta, o Brahman, che si sta testimoniando.
Non può essere trasmessa, nè efficacemente commentata e descritta ad altri prima di essere stata realizzata e non solo pensata e dedotta come possibile dalle testimonianze e creduta tale "per fede".
Per un aspirante alla realizzazione non duale l’apparenza fenomenica è destinata a dissolversi, così come le vie, ogni idea di culto, di cammino, di raggiungimento, ogni idea che sostenga una differenza o che attui una separazione.
Tutto è una cosa sola: identità.
Anche la vita è sogno, l’intreccio di veglia, sogno e sonno profondo, è una rete che non esiste, pur essendone stati catturati. Ma se ora siamo mosche, inutile crederci ragni.
"L'Advaita? Sì, certo. Uno. E tutti gli altri?".
Non solo. C'è altro. C'è il sahaja. C'è il jivanmuktiviveka. E conviene fermarsi.
Il punto è: quanti?
Noi cosa facciamo? Restiamo ad aspettare qualche migliaio di vite, in aspirazione, aperti alla Vita, in evocazione?
E ancora, quanti? Temo che ci sia un grande fraintendimento intorno all'Advaita.
Contiamoli. Non solo. Una volta contati, esaminiamoli. Esaminiamoli per come sono e non per le proiezioni (giuste per carità) dei seguaci.
Esaminarli non significa mettere in discussione le loro parole, solo prendere atto dell'astrazione e separazione che ha portato quel percorso, se non in rari e magnifici casi in cui hanno poi incarnato l'Amore e hanno operato... penso a Shankara, a Dattatreya, a Caitanya, a Raphael.
Ovviamente da aspirante seguace, svolgo un ruolo di parte.
In realtà la nostra sadhana è la nostra stessa vita per com'Essa si porge, per come il Divino la Contempla, per come il karma la struttura...
Si confondono le aspirazioni e le proiezioni, non si riesce a riconoscere o far cadere un'opinione, non si gestiscono i vari livelli della mente, non si riconoscono gli aspetti istintuali, si cammina con un corpo a cui siamo identificati, ma che non controlliamo, etc. etc. etc.
Eppure è così semplice... c'è un movimento. Lo sosteniamo noi. La Vita lo terminerebbe per attrito. Noi lo vogliamo, quindi perché celiare?
Si vedano i varnasrama, si riconosca il dharma, si stabiliscano i puruṣārta e ci si rappresenti di conseguenza.
Teano, forum pitagorico 2011
Per un avadhuta i tre guna, così come i tre stati della coscienza, sono trascesi, risolti e integrati nel continuo fluire del movimento che porta in apparenza il divenire, che ha un suo grado di realtà.
Il realizzato non duale comprende per esperienza diretta, non per conoscenza mentale, l'interazione tra le diverse qualità (guna) che, sotto forma di percezione attraverso i sensi, costituiscono il movimento e non interferisce con la naturale tendenza all'equilibrio dei guna.
Per questo la sua vita è percepita armonica e tutti, anche gli animali, gioiscono nello stare alla sua presenza, sia che parli, sia che taccia. L'unico suono che emana è il Pranava, la vibrazione dell'Om, non più differenziato in A U e M. Luce pura, non scomposta dal prisma nei vari colori.
Viene ripetuto a iosa che l’aspirante alla realizzazione non duale dovrebbe liberarsi dall’identificazione, dal corpo, dal senso dell’io e pure dal testimone che osserva lo svolgersi del divenire. Che si deve "credere" di essere Quello, da sempre e per sempre, ma si tratta di una Verità che si degrada nei tentativi di dimostrazione, a meno che non sia stata realizzata, visto che non si può certo acquisire come credo o in conseguenza di un processo intellettivo.
Ove realizzata, quella Verità emana e non necessita di dimostrazione. Non ponendosi in contrapposizione non necessita neppure l'abbandono di eventuali altri percorsi sociali, religiosi e devozionali che vengono compiuti sempre nel distacco, vivendo il presente e senza aderire a recriminazioni sul passato o desideri per il futuro, senza alcuna interferenza con modi altrui e senza cercare di condurre altri dove non sono.
Chi aspira alla non-dualità della propria natura non si occupa dei veicoli, sperimentando direttamente che sono dei semplici involucri usati dall'individuo per operare sui vari piani.,
Ci si limita a ripristare la consapevolezza propria dell'Essere che risuonerà anche nelle parole (lasciate per testimonianza), ove non si scelga il silenzio.
La più alta qualificazione del discepolo è la fervente aspirazione all'identità con l’ātman, svegliarsi alla realtà del puro Essere, non percepire più la separazione tra l’amato, l’amante e l’amore.
La realizzazione del Sé non è l’effetto di un cambiamento, non aggiunge e non toglie, non modifica nulla.
L’ātman è identico alla Realtà assoluta, pertanto non è migliorabile, non è oggetto della conoscenza, non è comunicabile o modificabile.
Non può essere colto attraverso i sensi perché non è “altro da sé”, ma soltanto colto come atto diretto di autoconsapevolezza.
Non è soggetto ad alcun legame causale, libero all’inizio, libero alla fine.
Ineffabile, della stessa natura del Cielo.
L'occhio non può guardare se stesso senza uno specchio. Uno specchio che si riflette in un altro specchio.
Baluginio di effimere fiamme. Lo specchio si frantuma, l'immagine moltiplicata svanisce. Non resta niente.
Qualcuno che ramazza i cocci. Solo un povero caṇḍāla che non ricorda neppure il suo nome.
Che può fare un aspirante a questa via se non mantenere costante la propria determinazione interiore?
L'Advaita è la consapevolezza stabile e continua del Reale (Brahman).
Il Reale (Brahman) è la pura Realtà (Atman) dell'essente (jivatman), pertanto nessuna azione (poiché di gradazione inferiore al Reale) può determinarla, perché il Reale, già essendo, è incausabile e indeterminabile.
Poiché la consapevolezza del Reale non impedisce la consapevolezza della gradazione (maya, fenomenico o non-reale o non-essere), l'Advaita non nega nè si contrappone alla visione duale, stato di necessità nella gradazione.
Poiché la gradazione del Reale è molteplice e la sua considerazione ne determina la manifestazione, l'esaurimento della considerazione esaurisce la gradazione.
(…) La gradazione è insieme determinabile e indeterminabile.
L'Advaita testimonia l'inesistenza del libero arbitrio, testimonia l'inesistenza del Demiurgo, etc. etc.
Testimonia pure che chi non ha la consapevolezza del Reale è soggetto alle credenze e alle percezioni delle gradazioni del Reale stesso.
Questo determina il fraintendimento fra il Reale e le sue gradazioni, non essendo questi fra loro commensurabili o confrontabili, anzi quasi escludendosi a vicenda sino alla consapevolezza stabile e continua del Reale.
Bodhananda, mailing list Vedanta-Sai Baba
