(Non) molto tempo fa (era il 2002) in una remota galassia, anzi in una remota mailing list di nome SaiBaba_vedanta correvano, tra alcun aspiranti iscritti, i seguenti scambi di mail...
(Bodhananda)
Storiella gettata là per là...
<<Che strano gioco... stare qui a scrivere su cose che non dovrei conoscere, perché la mente dice che solo i realizzati le conoscono, e la stessa afferma che, esistendo nella stessa espressione di tale valutazione, chi scrive non è pertanto un realizzato (con grande gioia di affermare ciò, e il provare questa stessa gioia, essa afferma, è sinonimo di non realizzazione).
Se poi le chiedo allora di definire "realizzazione" piglia e tace.
Certe volte non si sa che pesci prendere... nè si vorrebbe mai inviare questa lettera...
(metti che credano che sei realizzato!) Magnifico, cosa te ne frega? Se lo sei, lo sei.
Se non lo sei non lo sei.
Vero, ma tornando al discorso di prima, esiste quella famosa responsabilità... se altri si convincono dal tuo agire che sei un realizzato, terranno il tuo dire in maggior conto e forse seguiranno quello che dici e ne diventi responsabile.
E a seguire menate simili. Certe volte ci si osserva e non si trova niente, niente da osservare, nessuno che osservi, etc. etc.
Altre volte ci si diverte a vedere come la mente muove e scompare.
È vero: da tempo ormai non ci sono dubbi, domande, interrogativi, etc...etc.
Sono un realizzato? Non saprei. Cosa è un realizzato?
Ci sono state esperienze di saguna, nirguna, sahaja... etc. etc.? Sì, ci sono state.
Come sai che non sono oniriche?
Beh! La prima risale a troppi anni fa, troppi perché si usciva dall'adolescenza e fu persa nell'apprendimento profano, e nel fare mille e mille altre esperienze.
Poi è tornata qualche anno dopo.
Il nirguna? A circa 15 anni di distanza dalla prima. Il sahaja?
Quello fu da ridere. Non sapevo che esistesse, come si sconoscevano gli altri... solo dopo capitò di leggere libri che parlavano di queste cose e le si sono riconosciute.
Solo che capitò un po' di tempo dopo il nirguna samadhi.
Il sahaja non è descritto, se non forse in un unico libro, di cui non si ricorda il titolo.
Così, con terribile imbarazzo, dopo diverse settimane di quello stato, si contattò un Fratello e si esordì così: "Scusi, Maestro, non è che c'è qualcosa che forse dovrei sapere?"
- A che proposito?
- Non è che nei libri tradizionali, si dicano le cose solo sino ad un certo punto?
- In che senso?
- Non è che dopo l'atman e il brahman (intesi come savikalpa e nirvikalpa samadhi) c'è un altro stato di cui nessuno scrive?
- (mi prese per matto) Ma, no. Certo che no (quasi inorridito - ovviamente sono mie interpretazioni).
Descrissi lo stato, e lui quasi sollevato: "Ahh! Questo è lo stato del jivanmukta."
Fui sollevato anche io! Mi sarebbe dispiaciuto che la tradizione non rispondesse.
Qualche tempo dopo, parlai con lo stesso Fratello chiedendo lumi sul comportamento.
- Lei dice che è opportuno operare e che per questo è stato dato un determinato nome
xxx [Bodhananda], ma ad un certo punto la gente potrebbe chiedere a che titolo parlo.
Non posso certo dire che ho letto dei libri, se mi chiedessero quali, non saprei che dire.
- Rispondi che ognuno ha la propria realizzazione e che tu parli dalla tua.
Pertanto, parlando da questa realizzazione e senza affermare che chi parla sia realizzato
(in quanto come disse un noto Maestro: "Come fai a dire che non sei realizzato, magari
lo sei e non lo sai." - e quindi può esser vero anche il viceversa), perché sinceramente
non ho trovato nulla da realizzare, nè nulla da non realizzare, nè sono in grado di dire
cosa "io" sia o non sia, nè riesco ad aderire ad alcuna definizione di ciò che sono, ma
nella piena consapevolezza di essere, senza un cosa o un chi, nella piena consapevolezza
e conoscenza diretta che questo Essere è proprio a tutti (volendo distinguere e vedere un
insieme di individualità) e dato che ultimamente c'è stato un deciso stimolo a ciò anche
da un Fratello minore... ad operare senza più veli... vediamo di chiarire quello che è stato detto.>>
Brano tratto da un manoscritto trovato in una vecchia valigia.
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(marco)
"Sono un realizzato? Non saprei. Cosa è un realizzato?
Ci sono state esperienze di saguna, nirguna, sahaja... etc. etc.?
Sì, ci sono state....(Bodhananda)"
>Strano che queste parole siano scivolate così, liberamente, senza trovare in lista impuntamenti di sorta in chi le leggeva. Tutto tace, si continua a parlare di altro, a seguire i flame in atto, quasi facendo finta di non averle lette, di non averle viste, come non fossero mai scorse.
>Strano, davvero strano, di solito così tutti attenti persino alle sfumature ed ora di fronte ad una affermazione esplicita e chiara.....mumble, mumble.....Mi sembra quasi di vedere le stesse facce di coloro che, di fronte al mago, nella piazza del paese, tra un'esercizio con le carte ed uno con i fazzoletti, ad un bel momento tira fuori dal cilindro un'elefante!
>Il brusio improvvisamente si spegne, un silenzio di tomba scorre sulla piazza, non si sa se ridere, applaudire, o che altro, e così si resta muti ed immobili.
>Eppure l'elefante è lì, con tanto di proboscide e zanne, e pure il cilindro è lì, anzi ora lo tiene proprio nella parte finale della proboscide e lo sventola rivolto ad pubblico muto a mo' di saluto finale dello spettacolo.
>Nessuno riesce ad applaudire, ma nemmeno a fischiare, solo tante statue di sale....forse pensierose.
>Ri-shanti Bodhananda…
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Perché è così strano, Marco?
Riportare brani in lista, affinchè possano presentarsi come seme di riflessione, è una pratica in uso.
Cerchiamo di portare le nostre esperienze o, se vogliamo, realizzazioni, lasciando fuori quel mondo delle opinioni che tanto appesantisce.
Ugualmente se troviamo dei brani che riteniamo possano essere di spunto, li postiamo. Ma veramente ci sconvolgerebbe così tanto se domani uno di noi potesse dire:
"Ebbene sì, questo ente ha esperito questo e quest'altro?".
Non è forse questa la meta cui aspiriamo? Oppure è una falsa aspirazione, un qualcosa
su cui ci piace semplicemente indulgere a livello discorsivo, senza però ritenere che sia
possibile raggiungerla qui e ora?
Sarebbe come disquisire del paradiso delle urì.
Se mai una cosa del genere avvenisse, non dovrebbe essere di sprone, di spinta, una condivisione di gioia? Perché mai dovremmo vedere certi stati di coscienza così lontani da noi, se tutti i Maestri sostengono che essi, in realtà, sono la nostra stessa natura?
Tempo fa si leggeva la vita del Buddha. Mi stupì molto la descrizione della riunione che
si tenne fra i suoi discepoli che dissero, non ricordo a quale fra di loro, che c'era un problema... se da un lato quel discepolo (forse Ananda?) era stato il più vicino al Buddha, era il cronista e il fedele scrivano di tutti i suoi discorsi, era anche l'unico a non essersi ancora illuminato!
Questo poneva un problema, come avrebbe potuto riferire i discorsi del Buddha, specialmente agli altri confratelli, se non aveva ancora raggiunto l'illuminazione, mentre gli altri discepoli diretti sì?
La cosa che mi stupì fu che lui diede loro ragione e chiese qualche giorno per illuminarsi...Si ritirò nella capanna e non uscì per diversi giorni. Quando finalmente venne fuori, gli altri furono felici perché videro dai suoi occhi che aveva finalmente ottenuto l'illuminazione!
Il bello non fu che avesse ottenuto l'illuminazione, ma proprio la sequenza... del tipo:
"Ops...! Scusate, mi ero dimenticato di illuminarmi. Aspettate un attimo che rimedio subito... e zac! Ecco l'illuminazione."
Il brano mi aveva colpito per la permanenza del dubbio della mente, che per abitudine (diciamo della sadhana) continuava l'indagine nonostante non ci fosse più niente su cui indagare.
Ci sono certi aspetti che tralasciamo... consideriamo che Ramana parlava dei pensieri che continuavano a scorrere, che Ramakrishna dopo che venne dichiarato Avatara dopo un consesso di pandit, andava in giro a parlare con i suoi discepoli, chiedendo: "Ma veramente tu credi che io sia un avatar?"
Socrate parlava della saggezza come del sapere di non sapere.
Sai Baba affermava che l'unica differenza fra lui e una persona normale è che lui è consapevole di essere, mentre altri, pur essendo, non lo sanno.
Sarebbe veramente tragico stupirsi se uno di noi dovesse sperimentare certi stati, ci
dichiarerebbe che in realtà non lo avevamo ritenuto possibile.
Ma se non lo ritenessimo possibile, perché si pratica una sadhana (qualunque essa sia)?
Certo se poi questa ipotetico aspirante dovesse partire lancia in resta per salvare il mondo o imporre la sua verità, allora sì che sorgerebbero dei dubbi.
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Capita mai di ricordare che il sottoscritto ha accesso, nel suo ruolo e funzione di editore, ad una marea di libri e manoscritti provenienti dal Ramakrishna Math, dal Ramanasramam, dagli Shankara Math, nonchè da aspiranti italiani? E non potrebbe essere che qualcuno di questi, o qualcuno stesso delle liste, possa avere scritto quel brano?
Cosa cambia se è l'esperienza di bo., di S., di O., di Marco, o di Sadhu Arunagiri?
Ci piace così tanto che certe esperienze siano irrealizzabili o lontane da noi nel tempo o nello spazio? Cos'è? Si possono avere solo in India? Oppure le possono avere solo coloro che sono nati nella terra di Bharata?
Vi rendete conto che sarebbe ben tragico se in anni e anni di influenza in Italia o in Occidente dei vari Vivekananda, Yogananda, Sai Baba, Ramana, Hare Krishna, Ramakrishna, Aurobindo, Anandamoi, Chinmoy, Osho, Buddhismo, Taoismo, etc. etc.
nessuno si fosse mai realizzato?
Sarebbe tutta una farsa!
La chiamiamo tradizione vivente proprio perché essa vive in chi la testimonia e ci mancherebbe altro che prima o poi non spunti qualcuno che avrà realizzato il sé.
Qual è il problema... che lo ha realizzato uno che conosciamo?
Uno che non è abbastanza santo?
Che non ha la barba bianca?
Che non ha ottant'anni?
Che ne ha 14?
Che non risponde ai nostri parametri?
Che è italiano o francese?
Che è basso?
Che è magro?
Che è donna?
Oppure il problema è che ci distrugge i nostri alibi?
Che non possiamo più dire: "Ah, ma la realizzazione è così difficile, lontana, impossibile!"
Solo i più grandi ci sono riusciti! Già, ma dimentichiamo che siamo noi che li
chiamiamo grandi...Che Ramana era uno studentello, che Sai Baba era uno scolaro, che Ramakrishna era un pretino di periferia, che Nisargadatta era un tabaccaio...
perché uno spazzino, un taxi driver, un operatore sociale, un medico, un ingegnere, un
insegnante, una commessa, di nascita italiana, non possono realizzare il sé?
Letto quanto sopra proseguo con alcune mie considerazioni del momento presente.
Affermare come hai fatto: «Tu mi chiedi quale sia la mia personale esperienza a riguardo e ti rispondo senza voler destare scandali, che vivo il samadhi ad occhi aperti» di vivere un samadhi ad occhi aperti equivale alla mia semantica dire di essere un jivanmukta, un avadhuta, un realizzato.
Sull’affermazione in sè non si può dire nulla, o meglio si potrebbe dire tutto ed il contrario di tutto, ma in ultimo ci si potrebbe ricordare cosa talvolta ha detto e ricordato la tradizione stessa, come per esempio, a far paio con i tuoi timori di scandalo, che nessuno è mai stato profeta in patria. Non che questa sia patria e tu un profeta, ma immagino tu comprenda cosa voglio dire.
Altra affermazione spesso ricorrente in ambito tradizionale è sostenere che solo un “realizzato” sa riconoscere un altro realizzato.
Un’affermazione ancora più forte della precedente, sostiene che agli occhi di un realizzato qualsiasi “altro da lui” sia parimenti realizzato in quanto essere lui stesso.
Nel senso, immagino, che non essendoci alterità per un realizzato che ha realizzato l’unità e l’universalità della manifestazione, “dio” è in ogni cosa e ogni cosa è dio, volendola leggere in un’ottica devozionale-bhakti. Una cosa ancora più buffa e curiosa (alla mente) è affermare (come si alludeva nello scritto precedente) che un realizzato possa non sapere di essere realizzato.
Il sapere cui si allude, ovvero la conoscenza, così come il famoso sapere di non sapere di Socrate, altro non è che la conoscenza-sapere di ciò che non si è. Nisargadatta sosteneva, in una delle sue sentenze a me più gradite, che possiamo conoscere solo ciò che non siamo, quanto a ciò che siamo possiamo solo esserlo, in identità.
Ciò che siamo possiamo solo esserlo e non conoscerlo, inteso come esperienza e percezione, questo perchè qualsiasi esperienza, conoscenza, percezione ha luogo solo quando c’è un soggetto che conosce, esperisce, percepisce “qualcosa” di altro da lui-soggetto (e che quindi non è lui, ma appunto altro da lui).
Non per nulla la via d’elezione della conoscenza (jnana), del conosci te stesso, è il neti-neti, non questo non questo, non sono questo non sono questo. Ci si può conoscere solo per negazione di ciò che si è, ovvero per affermazione di ciò che non si è.
Io non sono questo e quello, ciò che resta è l’identità di “ciò che sono”. Quando dio incontrò mosè gli disse, alla sua richiesta di nome e forma, io sono colui che sono-è. Anche noi siamo ciò che siamo (essere, e lo siamo sempre stati e sempre lo saremo), aldilà di ogni altro, non sono questo e quello che riusciremo a conoscere nella nostra vita-cammino-sadhana.
L’affermazione di alterità, di ciò che non siamo, di ciò che è altro da “noi” andrà poi integrata, o meglio re-integrata in quella identità in cui ci riconosciamo essere per identità, e questo è l’iti-iti, sono (anche) questo, sono (anche) questo. È quello che fa poi dire al realizzato sahaja di essere il tutto (manifesto e non) e il tutto essere (in) lui. O come diceva Sankara che il jiva e il brahman sono la stessa cosa (identità).
Tornando al (tuo) samadhi ad occhi aperti, non posso che gioirne per te, come del fratello che dopo lungo peregrinare (Poonja parlava di 35 milioni di anni di peregrinazione) giunge finalmente alla agognata meta. “Scandali” e problemi permettendo, e profeti fuori sede, resta pur sempre quell’osservazione posta da un caro fratello che diceva a riguardo della realizzazione (altrui):
“Oppure il problema è che ci distrugge i nostri alibi? Che non possiamo più dire: "Ah, ma la realizzazione è così difficile, lontana, impossibile!" Solo i più grandi ci sono riusciti! Già, ma dimentichiamo che siamo noi che li chiamiamo grandi…”
Non è mai il momento giusto, e men che mai oggi e adesso, qui e ora, per morire a se stessi e rinascere al Sè. Tante, troppe volte la sadhana diventa un alibi per procrastinare la realizzazione di ciò che è e già siamo, qui e ora, adesso, continuando invece a vivere, a dilazionare nel tempo e nello spazio, a cercare, a soffrire e addolorarci e flagellarci di questa nostra non riuscita e ultimata ricerca di noi stessi, di questo divenire che però ci permette, divenendo, di continuare ad esistere e cercare.
Paradossi della mente, del pensiero, del pensare che, pur sapendo che siamo ciò che pensiamo, quindi divenire, quindi discontinuità, continuiamo a pensarlo per esserlo. Mai una volta che uno volesse fermarsi in uno iato tra due pensieri e starci?
Buon proseguio Latriplice e continua a portare testimonianza di te...nonostante lo scandalo, nonostante la casa, la patria, nonostante tutto.
Volendo fare un’ultima battuta, forse ogni realizzato ha realizzato l’armonia del creato, ma non credo che il creato ne abbia mai altrettanto realizzato l’armonia negli occhi del realizzato. Non per nulla, alla fine, li mettono quasi sempre in croce….